Intervista a Sean Penn, a cura di Rolling Stone Magazine

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Lady Penny Lane.
» Posted on 25/6/2009, 10:47




Sean Penn: l'intervista in versione integrale



Rolling Stone



In una giornata di gennaio, Sean Penn apre la porta di casa sua nella Bay Area, a piedi scalzi, in jeans e canottiera grigia, con i capelli scompigliati da pazzo, come se si fosse appena svegliato. Mezzogiorno è passato da un paio di minuti.

Dire che Penn è "invecchiato bene" significa utilizzare un significato non propriamente standard del termine. Non sembra più giovane dei suoi 48 anni. La sua fronte si è raggrinzita in modo barocco, il lungo viso è sciupato, i capelli sollevati in alto sono striati di grigio e portati con la riga in mezzo. C'è qualcosa che Penn indossa, oppure è lo stesso Penn, che trasuda quel particolare odore muschiato di birra e sigarette tipico di una notte sregolata. Tutto ciò suona come il contrario di un complimento, e per molti lo sarebbe, ma invecchiando Penn si è trasformato esattamente nel tipo d'uomo che ha sempre mostrato di voler essere. Quando era più giovane, e non era ancora consacrato come il più grande attore della sua generazione, Penn aveva l'abitudine di fare amicizia con uomini più anziani che aveva idolatrato a lungo (Jack Nicholson, Charles Bukowski, Dennis Hopper, Hunter S. Thompson) e che, a parte il loro evidente talento, erano sembrati immaginarsi uno stile di vita (uno stile di vita molto duro) che era diventato anche un'estensione della loro arte. Da grande attore caratterista qual è, Penn studiava questi uomini e viveva duramente lui stesso - scazzottate, sbronze, prigione, Madonna, riferimenti pubblici alla biancheria intima «sporca e macchiata di sangue» di un presidente in carica. «Non sono un alcolizzato», ha dichiarato al New York Times Magazine nel 1998. «Sono solo un gran bevitore, e c'è una bella differenza». Si ha la sensazione che Penn avrebbe accolto con piacere, a un certo punto lungo il cammino, una dose di decadimento fisico alla Bukowski.

In casa la figlia diciassettenne di Penn, Dylan, sta preparando da mangiare assieme ad un amico in cucina, dove appesa alla parete c'è una cartolina spedita dai Coppola in vacanza (Francis Ford e moglie ritratti sul davanti). Un enorme camino in pietra domina il soggiorno (non esiste un termine per definire un camino nel quale è possibile entrare, ma per questo esemplare dovrebbe essere inventato). Il figlio Hopper, 15 anni, non si vede da nessuna parte; in un'altra stanza, c'è un poster incorniciato di un film noir dal titolo Fall Guy, il cui protagonista era il padre di Penn, Leo, un attore e regista che fu censurato negli anni Quaranta e Cinquanta (per aggirare la lista nera, Leo Penn fu messo nell'elenco di Fall Guy come "Clifford Penn").

Sean Penn ha appena ottenuto la nomination all'Oscar come miglior attore per il ruolo che dà il titolo a Milk, la trionfante biografia realizzata da Gus Van Sant del pioniere della politica gay Harvey Milk, che nel 1978 fu assassinato, assieme al sindaco di San Francisco, da un consigliere comunale squilibrato (interpretato nel film da Josh Brolin). È un'altra delle performance virtuosistiche di Penn, che in quasi trent'anni ne ha ammassate parecchie, a partire da Jeff Spicoli in Fuori di testa, uno dei pochi personaggi di Penn che alla fine fa una bella fine (e a un certo punto si brucia tutti i soldi della ricompensa per avere salvato Brooke Shields dall'annegamento ingaggiando i Van Halen per suonare alla sua festa di compleanno). Dopo Fuori di testa, Penn è stato il protagonista di esattamente tre commedie: la dimenticata Crackers; l'eccellente film agrodolce di Woody Allen Accordi e disaccordi, nel quale interpreta la parte di un chitarrista jazz degli anni Trenta, e il film sull'amicizia con Robert De Niro Non siamo angeli. «Mi piace fare commedie», dice Penn, senza sorridere, «ma non sono il primo della lista a cui vanno a chiedere di fare quella roba». No, la pagina di Penn sull'IMDb è fatta soprattutto di brutte notizie: riformatorio (Bad Boys), pena di morte (Dead Man Walking), crimini di guerra (Vittime di guerra), figlie assassinate (Mystic River), trapianti di cuore non riusciti (21 Grammi), spie dilettanti cocainomani (Il gioco del falco), parassiti di Hollywood cocainomani (Bugie, baci, bambole e bastardi), avvocati della mala cocainomani con capelli molti brutti (Carlito's Way), padri psicotici interpretati da Christopher Walken (A distanza ravvicinata) e prossimamente - per il regista Terrence Malick - il figlio tormentato di un tormentato Brad Pitt (The Tree of Life). Il che rende l'assoluta trasformazione di Penn in Milk, un attivista locale carismatico e instancabilmente positivo, ancora più rimarchevole. Quello che più sorprende non è il fatto che Penn sia così bravo nel recitare la parte di un uomo orgogliosamente e dichiaratamente gay, ma che sia così bravo nel recitare la parte di un uomo così buono. Come il suo amico Brolin ha detto scherzando (solo a metà) in occasione della premiazione del New York Film Critics Circle: «Abbiamo conosciuto Sean come un attore che non sorride molto. E il fatto che tu abbia sorriso così tanto in questo film è pazzesco. Davvero incredibile. Prenderai l'Oscar. Perché hai sorriso così tanto»

Io e Penn abbiamo passato circa cinque ore assieme nel giro di due giorni. Un lasso di tempo notevole lo abbiamo speso girando in macchina attorno a Marin County nella mia ridicola auto a noleggio, una minuscola decappottabile rossa fiammante. Penn fa da navigatore, fumando, incassandosi nel sedile, spesso dimenticandosi di darmi indicazioni fino all'ultimo secondo, e poi mostrandosi soddisfatto quando sono costretto a tagliare la strada ad altre macchine o ai ciclisti che sono dappertutto (Penn: «Tu vai in bicicletta?» Io: «No». Penn: «Bene»). Quando non è nel personaggio di Harvey Milk, Penn non è propriamente generoso con quei sorrisi aperti. I suoi occhi azzurri sembrano costantemente fissarti da sopra un paio d'occhiali da lettura, anche quando non li indossa, il che gli conferisce un'aria perennemente scettica. Ma nonostante la sua reputazione (è umorale, odia i giornalisti), Penn è un uomo con cui è facile andare d'accordo. Un giorno per il brunch siamo raggiunti da sua moglie, la bella attrice Robin Wright Penn. Il giorno dopo, andiamo in macchina fuori città in un locale portoricano specializzato in pollo a San Rafael che Penn adora, e ci sediamo a un tavolino all'aperto vicino al parcheggio.

Una cosa di cui Penn non vuole discutere molto è la politica. Ma l'argomento è inevitabile: dopo aver scritto un articolo per il Nation che parla delle sue visite al presidente Venezuelano Hugo Chávez e al presidente cubano Raúl Castro (una versione più lunga del quale è apparsa sull'Huffington Post) è stato accusato da un coro di giornalisti di essere un adulatore e un incredibile naif. Penn, naturalmente, rende pan per focaccia. A un certo punto della nostra intervista, scagliandosi contro la mancanza di impegno dimostrata da alcuni suoi colleghi attori, dice: «La gente passa troppo tempo a fare da modello per qualche fottuta casa di moda invece di recitare, e io mi indigno. Del tipo: "Oggi vai a fare la pubblicità di Chanel? Oh, scusa, pensavo che fossi nel bel mezzo delle riprese di un cazzo di film"».

«Si vedono attori meravigliosamente dotati di talento ovunque, il che rende la cosa ancora più triste», dice Penn stancamente, accendendosi un'altra American Spirit. «Non dipende da che tipo di film fanno. Non m'importa se fanno storie d'amore: ci sono grandi storie d'amore. Ma almeno fammi sapere che ci credi davvero. Voglio sapere che ogni volta stai cercando di scrivere il Grande Romanzo Americano. Sbaglia quanto vuoi. Ma almeno provaci, cazzo».










Dunque, congratulazioni per la nomination all'Oscar. Ti sei svegliato presto per sentire la notizia?
«Ho 48 anni. Ho spento il telefono e dormivo della grossa».

Ti ecciti per questo tipo di cose, oppure è più importante che i premi aiutino un film come Milk a raggiungere un pubblico più vasto?
«Beh, effettivamente abbiamo avuto più nomination di quante ci aspettassimo. E francamente, la chiave giusta per diffondere il film là fuori è il Miglior Film, più che la mia categoria. Ma ero molto eccitato, perché se non avessimo avuto queste otto nomination, saremmo già arrivati all'home video. È nella natura delle cose».

Quando Gus Van Sant ti ha avvicinato la prima volta per fare questo film, sapevi chi era Harvey Milk?
«L'anno in cui Harvey Milk fu ucciso mi stavo diplomando, così ero in California, e certamente ne ero a conoscenza: era una notizia a livello nazionale, comunque. Sapevo solo che questo politico apertamente gay era stato ucciso assieme al sindaco di San Francisco. Credo che sia accaduto solo un mese dopo il Peoples Temple [il massacro di Jonestown], che aveva colpito soprattutto gente di San Francisco, è stato davvero un momento di follia per la California del nord».

Conoscevi persone gay da ragazzino?
«Non ho mai sentito la parola "finocchio" prima delle scuole superiori. Potevo avere letto qualcosa sugli omosessuali nella rivista Life, ma non avevo mai sentito niente di offensivo. A livello politico, può darsi che se ne sia parlato in casa. Ma l'argomento non ha mai fatto presa su di me. Se conoscevo persone gay? In seguito ho saputo che c'erano amici di famiglia gay nel mondo del teatro. Mi ricordo di essere stato, da ragazzo, a una festa dove Paul Lynde ha detto a mia madre quanto fosse sexy mio padre, e di avere pensato: «Ma che cosa intende?».

Nell'interpretare un personaggio davvero esistito come Milk, con così tanto materiale d'archivio a cui fare riferimento, non c'è il pericolo di ricavarne solo una caricatura?
«Sì, ma io non sono capace di fare caricature. E non sono nemmeno capace di cantare. Questo è il fatto. Il problema principale è che di solito, per raccontare una vita intera in due ore, ci vuole qualcuno di più carismatico della persona reale. E in questo caso, si poteva solo aspirare ad esserlo».

Com'è Van Sant come regista?
«Tra i migliori. Dio solo sa perché, ci sono registi che amo, con i quali certi giorni ti trovi a fare una scena che non funziona - può essere colpa della sceneggiatura, o forse il tuo talento non è sufficiente ad arrivarci - ma a un certo punto, punterai il dito sul regista, e tornando a casa in macchina quel giorno dirai: 'Quel figlio di puttana...'. Questo non è mai accaduto una volta con Gus. Ho una memoria abbastanza fotografica degli attacchi che posso avere fatto a una scena - che fossero due take o trenta take, me li ricordo tutti. Così ho trent'anni di esperienza nell'andare e guardare come i registi reagivano a queste cose, come preparavano quel sentiero».

Puoi davvero guardare un film, vedere una scena e dire: «Mi ricordo di averla fatta in un modo diverso, e funzionava davvero meglio»?«Oh, sì, sì, sì. E Gus ha un gran buon gusto. È elegante. Lo avverti durante tutto il processo».

Al di là del soggetto e dell'opportunità di lavorare con Van Sant, c'era una motivazione politica nell'accettare il ruolo?
«No. Ho di sicuro apprezzato l'aspetto politico. Ma non è stato un fattore a livello conscio».

È stato strano vedere il film dopo la Proposition 8 - il parallelismo spaventoso con quella battaglia. E naturalmente, in Milk vincono sull'emendamento, mentre noi che guardiamo, trent' anni dopo, su un argomento simile abbiamo appena perso. Ne sei stato sorpreso?
«No. Ma solo perché parlavo con persone del sistema, tra cui anche il sindaco di qui [Gavin] Newsom, che erano molto preoccupate. Sono rimasto sorpreso quando ho sentito i numeri tra la gente di colore, il che è vergognoso, cazzo. E, ovviamente, i Mormoni. La conclusione che se ne trae è che le chiese non operano come strumenti d'amore. Sono macchine da odio. Sono fabbriche d'ignoranza».

Che cosa credi che Harvey Milk sarebbe diventato, se fosse vissuto?
«L'unica speculazione significativa che faccio è che, se si fa attenzione alla cronologia, sarebbe stata una voce incredibilmente potente quando la peste ha colpito, il che è accaduto un anno dopo. C'era un'intera amministrazione che non ha mai pronunciato la parola "AIDS." Avrebbe spinto su quella questione, e oggi ci sarebbero certe persone ancora vive che invece non lo sono. Questa mi sembra una scommessa abbastanza certa».

Si sa se avesse aspirazioni politiche più elevate?
«La mia impressione è che avrebbe portato il movimento il più in là possibile».

Josh Brolin ha fatto un discorso molto divertente su di te l'altra sera alla premiazione del New York Film Critics Circle. Voi due vi siete trovati subito bene?
«Avevamo passato un po' di tempo a bere assieme prima di sapere che avremmo fatto questo film. Mi fa crepare dal ridere. E, certo, tutti e due siamo surfisti californiani, tutti e due corriamo in macchina, andiamo a cavallo, e i nostri padri si conoscevano e hanno lavorato assieme. Credo perfino di averlo incontrato una volta da ragazzino. Mi ricordo di essere andato con mio padre a casa di James Brolin. Josh è molto più giovane di me, però».

Che cosa ha fatto tuo padre con James Brolin?
«"Marcus Welby, M.D."».

Non sei mai andato a trovare tuo padre sul set di show televisivi che ha diretto?
«Ero in quello show. Ero un extra. Avevo una battuta. Io e mio fratello più grande ci siamo entrati. Mio fratello stava facendo partire una macchina, che non partiva, e io gli dico: ‘L'hai ingolfata, stupido'. Da ragazzino ero sempre sul set».

Era eccitante per te, o è diventato familiare?
«Era una cosa del tipo "vado al lavoro con papà". Mi avventuravo nel retro degli studi mentre lavoravano, quello era divertente. Ma all'epoca non sognavo di partecipare. Sognavo di essere un cowboy, ma non un cowboy da film».

Com'era crescere a Malibu?
«Direi che era un misto tra Huck Finn e Rusty il selvaggio. Era una di quelle cose idilliache. Andavo a piedi alla scuola elementare, a poco più di un chilometro. I miei piedi toccavano il marciapiede solo per circa venti metri in tutto quel chilometro. Da allora, è stato tutto costruito, ci sono più strade. C'era una cultura che definirei di violenza soft, nel senso che non permettevamo ai surfisti di fuori di fare surf sulla nostra spiaggia. Eravamo vandali, portavamo le fionde sulla spiaggia, ci picchiavamo. Molta gente è quasi scioccata da questo - ma dieci dei ragazzi con cui sono cresciuto sono morti. È un gran numero. Questo gruppo di surfisti - in qualche modo come nel Signore delle mosche, questi ragazzi hanno trovato delle ragioni nella loro vita per mettersi in situazioni orrende».


Di queste dieci persone...
«Uno viveva alle Hawaii, è venuto a trovarmi a casa Malibu, questo più tardi, aveva poco più di vent'anni. Ha investito intenzionalmente un passante, è sceso dalla macchina, si è denudato e ha iniziato a gridare delirando su Dio. Questo era uno di loro. Un tipo con cui facevamo surf, andavamo sempre a Zuma Beach al mattino prima di andare a scuola. Abbiamo preso una manciata di sedativi prima di uscire in mare, e lui si è addormentato nell'oceano, e nessuno l'ha più trovato. Un altro con cui ho fatto surf e giocato a baseball nella Little League, spacciava e tirava di naso e si è lanciato in macchina giù da un burrone. Un altro tipo ha ucciso sua madre. Un altro tipo, con cui a dire il vero sono stato in prigione... credo che sia morto ora».

Ma l'hai visto in prigione?
«Quando avevo vent'anni. Ero nel carcere di Los Angeles, e un detenuto privilegiato per buona condotta è venuto a trovarmi. Ed era questo tizio con cui facevo surf. Il gruppo ristretto di surfisti coi quali sono andato in acqua per anni a quei tempi, era composto da otto ragazzi. E ne sono rimasti la metà».

I tuoi figli sono teenager ora. Hanno visto i tuoi film?
«Ne hanno a malapena visto qualcuno».

Per scelta?
«Per loro scelta. Li fa sentire strani, ne hanno visto qualcuno. Sono venuti tutti e due alla prima di . Milk. Non credo che nessuno dei due abbia visto più di quattro film a cui ho partecipato. Dei film di mia moglie, forse qualcuno in più».

Ma gli è piaciuto Milk?
«Sì, ma lo scherzo era che il problema di mio figlio era vedere suo padre baciare [James] Franco, mentre il problema di mia figlia era vedere Franco baciare suo padre».

Ho sentito che Van Sant voleva che il primo lungo bacio avvenisse molto presto, altrimenti gli spettatori sarebbero stati distratti nell'attesa del momento. È stato difficile girare quella scena, oppure è stata solo una delle tante?
«È stata più o meno una delle tante, sì». <

Uno dei miei redattori - e lo intendeva come complimento - ha paragonato te che fai Milk a Michael Jordan che gioca a baseball, eccetto che tu ci sei riuscito bene. Intendendo che sembri scegliere ruoli sempre più difficili, come modo per sfidare te stesso.
«Non è come la vedo io, veramente. Con questo personaggio, immagino che questa percezione sia legata per la maggior parte all'omosessualità. C'è una cosa che Cleve Jones [un attivista che lavora per Milk, ritratto nel film da Emile Hirsch] ha detto una volta. Ha detto che gli attivisti per i diritti dei gay, quando parlano di eterosessuali solidali con il movimento, dicono spesso: ‘Sono proprio come noi - solo che il sesso è diverso'. E Cleve ha detto: 'Veramente è proprio il contrario - non abbiamo niente in comune, a parte il sesso'. E questo è proprio vero. Ci sono più cose in comune con i neri americani - crescere sotto una dose di oppressione, e che genere di persone vengono fuori da questo, o sono combattenti, oppure soccombono, o chissà».

Ma è stato appassionante recitare la parte di Milk, così diverso dalla tua vera personalità pubblica?
«Mi ha appassionato, punto. Mi è piaciuto così tanto, che ho pensato: ‘Posso trovare lui in me stesso?'. Non lo sapevo. E c'erano volte in cui ci provavo e non ci riuscivo. Non lo sai. Puoi soltanto sperare. Qualcosa di davvero bello è successo, quando stavamo per partire. Stavo finendo Into the Wild allo Skywalker Ranch, e Paul [Thomas] Anderson era là che stava finendo Il petroliere (There Will Be Blood). Così ci siamo mostrati i film l'un l'altro. Ed è stata la cosa giusta al momento giusto per me. Vedere Daniel Day [Lewis], che credo sia un grande, grandissimo attore - c'è qualcosa di davvero stimolante nel vedere che cosa significa entrare in una parte. Non sto parlando di talento qui, sto parlando di impegno. Non mi sento minacciato da molti colleghi in termini di impegno. Molti di loro si sforzano di più a vendere i propri film piuttosto che a farli. C'è bisogno di gente come Daniel Day. Anche se pensi di star facendo del tuo meglio o di starci provando più che puoi, mi ha svegliato su questo fatto, sai: ‘Hai del fottuto lavoro da fare'. È stato davvero salutare per questo film».

Così è stata quasi una specie di... non vorrei dire rivalità, ma...
«No, è l'opposto della rivalità. È più come una fratellanza. Lui è nella tua squadra, e ha appena evitato sei placcaggi. Ora fagli un favore ed evitane sette. C'è qualcosa in questa situazione che fa partire l'adrenalina».

Il primo film che hai diretto, Lupo solitario, è stato ispirato dalla canzone di Bruce Springsteen "Highway Patrolman." Che cosa di quella canzone ti ha ispirato?
«Ho pensato che potesse essere un film appena l'ho sentita. Ho parlato con Bruce quel giorno stesso».

È stato dopo l'uscita di Nebraska?
«È stato prima dell'uscita di Nebraska, perché stavo vivendo con sua sorella a quei tempi [Pamela Springsteen, con la quale Penn è stato per un breve periodo fidanzato], e lui le aveva mandato una prima registrazione. Anzi, ti dirò di più: vivevamo in un appartamento in California che apparteneva a lui, e io andavo a traino, ero una specie di chitarrista senzatetto. L'ho chiamato e gli ho detto che volevo realizzare un film dalla sua canzone. Ero solo un ragazzino, così si è sentito tranquillo nel dire di sì. Ha detto qualcosa tipo: ‘Sì, Sean, certo'. Probabilmente stava pensando: ‘Non sentirò più parlare di questa faccenda'. Ma ha mantenuto la parola».

Hai imparato delle cose su come dirigere un film dai registi con cui hai lavorato?
«Oh, sì. In realtà ho osservato Scorsese in Cape Fear. Avevo appena finito Lupo solitario, e ho detto: ‘Avendo appena fatto un film, non sono mai stato più curioso di come fai le cose che fai. Posso venire a dare un'occhiata?'. Ho solo dovuto promettere che non avrei mai fumato da nessuna parte vicino a lui. Asma. Clint [Eastwood] è un caso davvero particolare. L'unica cosa che ho imparato da lui [in Mystic River] è il valore di una sensazione di pace e quiete sul set. Come lui realizzi un film rimane un mistero per me».

È molto veloce, giusto?
«Mi ricordo di essere arrivato in un hotel di Boston per cominciare il giorno stesso. Nove settimane dopo quel giorno, l'intero film era finito, incluse le musiche che aveva scritto e registrato! Quest'anno, due grandi film, e in uno recita anche...? Non so proprio come faccia».

È come un livello di sicurezza supremo.
«Questo gioca un grosso ruolo, certo. E il resto, non so che cosa sia. Ti dice: ‘Vuoi provare questa scena?'. Così tu fai la tua prima prova, e lui dice: ‘OK. Per me va bene. Vogliamo proseguire?'. Aveva la telecamera accesa - e l'ha ripresa. Penso che il numero maggiore di take ripetuti in un film di Clint sia tre, e accadeva di raro. Moltissimi one-take».

Che cosa mi dici della scena di Mystic River, quando il tuo personaggio viene tenuto a terra da quell'enorme gruppo di poliziotti mentre cerca di raggiungere il corpo di sua figlia?
«Questa è la mia storia preferita sulla sua direzione. Nella sceneggiatura, c'era scritto che sei uomini mi fermavano. Ho pensato che forse due di loro potevano battermi. Ma se ce ne sono solo sei, qualcuno si può fare male se mi lascio andare, così non so cosa fare. Non voglio una scena davvero finta, e non voglio fare male a nessuno. Clint ha detto: ‘Penserò a qualcosa'. Ha detto solo questo. E quando sono tornato sul set, mi ha fatto saltare addosso da 15 uomini, e io ero bloccato a terra. Potevo davvero provare a tirare testate, potevo cercare di mordere, potevo cercare di dare calci. Non ho dovuto trattenermi per niente, ero libero di fare ciò che volevo. Questo è Clint che pensa».

Com'è lavorare con Woody Allen? [Ride]
. «Mi ha sorpreso, perché aveva inventato un personaggio decisamente eccentrico, non avevo mai fatto niente di simile. E non mi ha mai chiesto come intendevo farlo fino al primo giorno di riprese. Se a Woody non piaceva qualcosa, mi diceva: ‘Sean, sai che cosa non andava bene in questa scena? Tutto'. Era quel tipo di chiarezza a rendere le cose semplici, perché non provavi a tornare lì ad aggiustare quello che avevi fatto, ma lo cambiavi completamente. Adoravo lavorare con lui. Registi con cui sono andato davvero d'accordo: Clint, Woody, [il regista di 21 Grammi] Alejandro González Iñárritu, Gus».

Uno dei tuoi primi film che ho appena rivisto era A distanza ravvicinata, che era incredibilmente intenso. Hai pensato che quello fosse il tuo primo ruolo davvero importante?
«È stato il primo nel quale ero davvero coinvolto. Ho accarezzato la cosa per cinque anni. Ho ingaggiato il regista, Jamie Foley. Avevo compreso il valore del costruire una partnership tra un attore e un regista, come con Scorsese e De Niro, certamente. E stavo cercando di trovare un regista come quello, perché avevo fatto alcuni iniziali passi falsi. Jamie alla fine non è stato al passo con quell'idea. Eravamo in sintonia su quel film, ma lui non voleva essere il mio regista, e io il suo attore».

Immagino che ingaggiare tua madre [l'attrice Eileen Ryan] e tuo fratello [Chris Penn, che è morto a 40 anni nel 2006] facesse parte del tuo operato?
«Più o meno. Jamie era un caro amico a quei tempi, e li conosceva entrambi».

Tu e tuo fratello parlavate molto di recitazione?
«Più di chiunque altro mi ha coinvolto nel mondo del cinema. Lo ha fatto lui almeno quanto mio padre. Non so quanti anni avesse quando ha visto Apocalypse Now, ma a quell'epoca era diventato un aficionado della guerra del Vietnam. Da quando aveva 13 o 14 anni, ha iniziato a fare film in Super 8, film sulla guerra del Vietnam, usando Phil Ochs come colonna sonora. Saliva da solo su un autobus e andava a Santa Monica a cercare qualcuno che avesse un'età tale per cui avrebbe potuto combattere in Vietnam. E si portava questi tipi a casa, questi veterani. Io tornavo a casa dopo il surf, e lo trovavo nella sua camera circondato da sei uomini barbuti pieni di tatuaggi, che trascriveva appunti, i loro dialoghi, questo e quello».

E ai tuoi genitori andava bene?
«Lo apprezzavano molto. Così ha cominciato a fare questi film, e poi ha cominciato a includermi, e poi la cosa è cresciuta e abbiamo cominciato a girare thriller. A quei tempi, mi raccontavo ancora che volevo diventare un avvocato. Leggevo tutti i libri di F. Lee Bailey. The Defense Never Rests Leggevo libri di diritto, sui precedenti legali. Volevo impararli tutti a memoria prima di andare alla scuola di legge. Nel frattempo, a scuola prendevo brutti voti, perché stavo alzato tutta la notte a fare film. A quel punto, avevo dovuto iniziare a recitare nei film che giravo, perché c'erano solo sei o sette tizi che potevi trascinare fuori a quell'ora di notte. E anche loro sono morti, comunque, la maggior parte di loro. Pazzesco».

Come è stato fare Taps- squilli di rivolta, il tuo primo film?«È stato semplicemente devastante, perché avevo fatto solo teatro, principalmente, prima di quello, e il procedimento della recitazione in un film... mi ci è voluto un po' per innamoramene. In Taps, mi stavo quasi suicidando. Col regista, che anni dopo ho capito essere abbastanza bravo, oltre che un uomo amabile, Harold Becker, abbiamo litigato così tanto. Devo essere stato un incubo, perché desideravo così disperatamente la libertà che avevo sul palcoscenico. Ci vuole un po' prima di accettare questa cosa. Parlo molto con Nicholson, che davvero è diventato una specie di angelo sulla mia spalla, per quanto riguarda la regia, e una grande influenza. Dice che il motivo per cui non fa più film non è la stanchezza, o il fatto che sta diventando vecchio. Semplicemente non ci sono molti registi con i quali voglia lavorare, perché deve trattarsi di qualcuno dal quale riesci a dipendere».

Come hai conosciuto Nicholson?
«Tim Hutton [coprotagonista di Penn in Taps - Squilli di rivolta] mi ha portato a casa sua. Credo sia stato l'anno in cui è uscito Fuori di testa. È emerso che io e lui abbiamo una vera facilità di comunicazione. E lui mi ha aiutato a migliorarla di molto. È come parlare la stessa lingua con qualcuno i cui istinti sono molto più acuti e più maturi... ».

Ho letto delle storie su te, Tom Cruise e Timothy Hutton che fate i matti durante le riprese di Taps.
«Beh, ci hanno costretto a fraternizzare quella volta. Ci hanno messo in questo hotel di Valley Forge, in Pennsylvania. Ed eravamo come bambini che scorrazzavano in giro. Ci siamo divertiti molto. Ma da allora, sono sempre quello che sta in un hotel diverso da quello di tutti gli altri attori. . Mi ricordo, quando stavamo girando in Thailandia Vittime di guerra, alcuni finivano in ospedale, e si ripresentavano con ferite ricucite».

Per essere stati in giro a fare casino?
«È cominciata perché gruppi di giovani attori a volte si dimenticano il motivo per cui sono lì. Io non volevo essere tirato in mezzo a tutto ciò».

Come è stato lavorare con Cruise?
«L'ho amato».

Qualche ricordo specifico di quello che avete fatto?
«Sarei piuttosto indiscreto se ne parlassi. Ma dal mio punto di vista, è stato tutto positivo. Non ho frequentato molto Tom negli anni, ma è sempre un piacere incontrarlo. E in Tropic Thunder fumava».

Che cosa hai pensato del discorso di Robert Downey Jr. in quel film che fa riferimento a te che non prendi l'Oscar per I Am Sam perché sei diventato un «completo ritardato?
«Tutto fantastico. Tutti in quel film sono stati fantastici».

C'è qualcosa di vero nella battuta di Josh Brolin a proposito della tua insolita quantità di sorrisi in Milk? È un personaggio molto più ottimista di quelli che di solito interpreti.
«Il vero nocciolo della questione è che, quando hai un muso come il mio, non ti propongono sceneggiature che richiedono così tanto il sorriso»

Ma in parte deve trattarsi di tue scelte di carriera.
«Sì. E sono sicuro che in parte sia per il fatto che non mi piacciono i miei denti. Sono scelte, ma anche no».

Hai fatto così poche commedie...
«Quella non è stata tanto una scelta. Anche quando ho fatto Fuori di testa, anni fa, una commedia abbastanza di successo, la cosa che mi è stata offerta immediatamente dopo è stata Bad Boys».

Mi sorprende che non abbiano cercato di categorizzarti come...
«Non è mai successo. Sono più interessato a come il dramma tende a risuonare nella vita delle persone, rispetto a quel tipo di evasione. Ma sicuramente avrei fatto dieci commedie in più se mi fossero state offerte. Lo stavo dicendo a qualcuno proprio l'altro giorno: ‘Chi l'avrebbe detto quando ero giovane che sarei finito a fare il ragazzo immagine per la Queer Nation, mentre Robert De Niro sarebbe diventato la più grande star della commedia americana?'».

Che cosa hai provato, tempo fa, a sentirti descrivere come "ribelle" o "cattivo soggetto"?
«Uhm, sai, non leggevo quella roba. Il peggiore periodo sotto i riflettori sono stati gli anni Ottanta, e a quei tempi` ero più interessato a recitare durante il giorno e a bere la notte».

Pensi però che quell'immagine ti sia rimasta appiccicata fino a oggi?
«Se stai suggerendo che la gente si attacca a una storia e poi ha difficoltà ad avere pensieri originali che vadano al di là di quella, sono d'accordo con te».

Il tuo ultimo film come attore è stato Tutti gli uomini del re, dove anche hai interpretato un politico, ed è una specie di contrasto divertente. Milk sembra presentare la visione più idealistica di quello che un politico può fare. Mentre in Tutti gli uomini del re, c'è questo mondo di corruzione.
«C'è un po' più di Blagojevich».

Allora la tua visione della politica è più vicina all'uno o all'altro film?
«Probabilmente ho un po' di entrambi. È buffo, con Tutti gli uomini del re è stata una delle poche volte in cui sono stato preso alla sprovvista dalla reazione a un film. Mi piaceva quel film, ed è stato criticato e disprezzato. Pensavo davvero che [il regista] Steve Zaillian avesse subito un attacco ingiusto. Anche quest'anno il fatto che in questo momento non ci siano corone sulle teste di [Steven] Soderbergh e di Benicio Del Toro, non lo capisco. È un film così sensazionale, Che, e Benicio è così fottutamente bravo. E il fatto che non incontro queste persone nel circuito delle feste di premiazione, è pazzesco».

Pensi che sia per la lunghezza?
«Forse perché è in spagnolo, forse la lunghezza, forse è una questione politica».

So che non vuoi parlare di politica, ma sono sicuro che hai visto i recenti articoli che attaccano la tua...
«No, non ho visto. Sono piuttosto fuori dal giro».

La sostanza era, ti ammirano come attore ma hanno detto che sei un giornalista naif.
«Beh, io credo che loro siano giornalisti professionalmente naif. Non ho rispetto per il 90 per cento del giornalismo americano. Ecco perché viaggio e guardo le cose di persona. Se si vuole attaccare Cuba per la mancanza di stampa libera, beh, noi non abbiamo alcuna stampa, per quanto mi riguarda. In teoria ne abbiamo il diritto. Ma non lo realizziamo. Sono lusingato dalle loro osservazioni sprezzanti. E per quanto riguarda quelli della televisione, molto si basa sull'invidia dell'attore. Sono tutti un branco di attori falliti. Bill O'Reilly voleva fare l'attore più di ogni altra cosa. Così devono sminuire la cosa. Ho sentito moltissimi attori dire: ‘Non mi piace quando gli attori vanno sul politico'. Stanno solo cercando di compiacere questa gente».

Forse non vogliono essere boicottati.
«O derisi. Le persone hanno più paura di essere derise che boicottate. È una posizione davvero vigliacca da assumere».

Hai dei rimpianti sul fatto di non avere confrontato di più, durante la tua visita, Raúl Castro su cose come la storica repressione dei gay a Cuba?
«Non intendevo dipingere l'intero quadro. Stavo parlando degli Stati Uniti e della nostra creduloneria. Solo qualche settimana fa, stavo facendo un reading per la fondazione Paul Newman e c'era gente fuori con cartelli con scritto "Matthew Shepard, brucia all'inferno". Dobbiamo dare una bella ripulita ai nostri armadi prima di poter cominciare ad attaccarli».

Questo è ancora un paese omofobico, non c'è dubbio, ma è diverso dalla storia di quello che è successo ai gay a Cuba.
«Ma anche noi abbiamo linciato i neri in tutto il sud una volta. C'è stata una repressione massiccia degli omosessuali a Cuba? Una volta, sì. Ma le cose cambiano. Non sono un difensore di Cuba. Ma bisogna considerare le lenti attraverso le quali si guarda».

C'è conflitto tra l'empatia di cui si ha bisogno per essere un attore e lo sguardo freddo di cui si ha bisogno per essere un giornalista?
«Come attore, bisogna essere capaci di sospendere il giudizio, e lavorare invece all'interno del comportamento e della personalità di qualcuno. Così non credo che tu stia tanto letteralmente empatizzando con uno stupratore o assassino, quanto piuttosto semplicemente accettando il carico dell'umanità che condividi con loro».

Hai visto altri bei film da Oscar?
«Ho pensato di uscire più tardi, partire con Gran Torino e The Wrestler, e poi vedere [Il curioso caso di] Benjamin Button questa settimana. Ho incontrato Clint e Mickey dappertutto ultimamente e continuo a dire: ‘Mi dispiace! Non l'ho ancora visto...'. [In una intervista successiva, Penn ha detto di avere visto The Wrestler: ‘Ho pianto. Un bel lavoro davvero'] ».

L'unico che ho visto è Benjamin Button. Brad Pitt è bravo, ma l'ho trovato sentimentale a un livello inguardabile.
«Sì, ma non mi interessa: David Fincher è stato derubato con Fight Club, e si merita qualunque cosa ottenga. Anche se questo film è sentimentale, non viene da uno qualunque che si fa seghe mentali. Sai che viene dal cuore, come sincero tentativo di avere a che fare col mondo».

Sembra che la stampa stia spingendo su una rivalità agli Oscar tra te e Mickey Rourke.
«Mickey mi ha chiamato e mi ha detto: ‘è questa cosa....' [I siti web di gossip hanno riportato che Rourke avrebbe mandato un messaggio di testo a un amico per prendere in giro l'interpretazione di Penn in Milk]. Gli ho detto: «Non voglio nemmeno leggerlo. Non importa».

Hai dichiarato di non sapere nemmeno come si accende un computer. È per evitare queste cose?
«È questo, ed è pigrizia. Mi vedrei anche a stare alzato tutta la notte a guardare cose. Ma mi sento più pulito senza... ».

Non hai recitato in Into the Wild, ma ho la sensazione che il personaggio di Emile Hirsch, il suo spirito avventuroso, fosse vicino a...
«Quel film è stato più vicino al mio cuore di qualsiasi altra cosa abbia fatto come regista o come attore. Mi disgusta il modo in cui loro [l'Accademia] abbiano snobbato quella pellicola. Siamo stati fottuti dal nostro distributore, Paramount Vantage. Se avessimo avuto nomination per gli Oscar, allora avrebbero investito nella cosa, cazzo. Ho pensato alla faccia di tutta quella banda quando non è uscito niente quel mattino, con l'eccezione di Hal Holbrook, che avrebbe dovuto andarsene con i prossimi cinque anni di Oscar. Quando quel mattino è arrivato, ho pensato di chiamare Bill Ayers per dargli l'indirizzo di Paramount Pictures».

Politicamente, ti senti ottimista?
«Sì, lo sono. Mi sento ottimista riguardo a quest'uomo, non riguardo a lui in se, e non riguardo al suo Cabinetto. Ma sono ottimista riguardo alle persone che lo hanno messo in carica - se prima lo supportano per poi sfidarlo».

Mentre Bush lascia l'incarico, hai qualcosa di bello da dire su di lui?
«No. Penso davvero che quell'uomo dovrebbe essere imprigionato per il resto della sua vita. So che suona come qualcosa di sinistra, ma credo che lo stato di responsabilità sia una farsa. È uno dei miei più grandi problemi con Barack Obama. Quando Gerald Ford ha perdonato Nixon, molti erano delusi da questo, ma quando Ford è morto, questi stessi democratici che una volta avevano criticato Ford per quel perdono improvvisamente avevano opinioni revisioniste: ‘Avevamo bisogno di stare uniti'. Ma a lungo termine, pensi che Bush e Cheney si sarebbero spinti così in là se Nixon fosse andato in prigione? No. Così quando Barack Obama se ne è uscito opponendosi in modo militante non solo all'impeachment, ma anche alla censura, ho pensato: ‘Ma che cazzo di stato di responsabilità è questo?' Sì, credo che Obama sia una persona profondamente elegante, intelligente e umana che ce la mette tutta e può farcela, e può davvero aiutare a cambiare il mondo. Ma non so ancora se tutti noi faremo la nostra parte».

Qualche volta pensi di tornare a vivere a Hollywood, o sei felice di stare qui a Marin?
«Il fatto è questo: ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto morire ai tropici. Così in realtà dipende da quando sento che il momento sta per arrivare. Quello che ci sta in mezzo è soggetto a revisioni su base quotidiana».

Fonte: ROLLING STONE MAGAZINE
 
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» Posted on 25/6/2009, 22:54




Un grande... quante volte l'ho detto ?
 
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Lady Penny Lane.
» Posted on 26/6/2009, 11:46




Tantissime volte :huglove:
Sapevo che l'intervista ti interessava!
 
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» Posted on 26/6/2009, 19:26




Grazie cara. ^^
 
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3 replies since 25/6/2009, 10:47   202 views
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